Orson Welles: La signora di Shanghai |
Cos’è che ci fa dire, dopo la
visione di un film, che valeva la pena d’esser visto o che, invece, abbiamo
solo sprecato più o meno due ore di tempo? Rispondere a questa domanda aiuta a
svolgere quel compito di educazione al gusto per la qualità e l’utilità del
prodotto cinematografico (e quindi, da parte del pubblico che ne fruisce, a
pretendere quella qualità e quell’utilità) che dovrebbe essere uno degli
impegni di chi ha a cuore la necessità di poter distinguere tra il prodotto
bello e quello brutto o tra un lavoro utile e proficuo e un altro futile e
sterile. Senza pretendere, ovviamente, di fornire una linea di demarcazione precisa tra i due parametri, poiché quella linea spesso risulta sottile e fluida
come una nebbia e quindi difficile da definire. Ma se ho usato il verbo “ridefinire” il valore e
il senso vuol dire che do per scontato che il cinema, come quasi tutte le forme
d’espressione artistica, accusi oggi un calo di qualità (soprattutto in Italia,
ma non solo) su quel terreno, almeno, che ci interessa: cioè sulla
realizzazione del prodotto cinematografico che chiamiamo opera d’arte
(diversamente da quello che si suole definire d’intrattenimento o meglio di
consumo).
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