Viaggiare
in Egitto significa percorrere o costeggiare un fiume, anzi, il fiume,
il corso fluviale per antonomasia, quel Nilo il cui nome è antico quanto un
mito, poiché l'Egitto si identifica e risolve in quel fiume, al quale deve la
sua stessa vita, oltre che il suo straordinario percorso storico, la grandiosa
vicenda umana e culturale che ad esso si è intrecciata nei secoli. Il resto del
paese non è altro che una vasta desolazione di morte, quella, indomabile, del
deserto: una distesa di sabbia impalpabile a occidente, verso la Libia; un conglomerato di
rocce aduste e impervie a oriente, verso l'Arabia. Un fiume in mezzo al
deserto, la sola fonte di vita; in pratica, un'oasi; un'oasi singolarmente
lunga e fertile il cui verde intenso risalta tanto più vividamente sulla tinta
bruciata del deserto in quanto le due strisce di terra feconda ai lati del
fiume si estinguono bruscamente contro la sabbia arida. L'interruzione,
infatti, è così netta che, volendo, si potrebbe poggiare un piede sulla rena
sterile e l'altro sul suolo coperto di messi.
Non per nulla gli antichi greci chiamavano il Nilo Egitto, come
ricorderà il lettore dell'Odissea, dove Omero scrive invariabilmente
Egitto per Nilo. Più tardi Erodoto dirà espressamente che l'Egitto è un dono
del Nilo. D'altronde gli stessi egizi distinguevano nettamente il suolo che
consideravano la loro patria, quello dal quale traevano la vita, chiamandolo Keme,
“Terra Nera” in riferimento al limo depositato dalle piene del fiume sul
terreno per fecondarlo e renderlo ferace, dal deserto circostante indicato con
l'epiteto poco rassicurante di Dashre, letteralmente “Terra Rossa” ma
anche luogo ostile, infecondo, dove alberga la morte.
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