sabato 6 dicembre 2014

LO CUNTO DE LI CUNTI, CAPOLAVORO DELLA LETTERATURA NAPOLETANA D’EPOCA BAROCCA


La rissa di Diego Velasquez
Lo Cunto de li cunti, ovvero lo trattenimento de’ peccerelle, nasce in quel di Napoli, all’inizio del Seicento, per mano  di Giambattista Basile, “avventuriero onorato”, com’eran detti all’epoca i gentiluomini che prestavano servizio presso le corti principesche o baronali in qualità di agenti diplomatici, giudici, amministratori e, insieme, letterati, pronti a fornir versi acconci a celebrar cerimonie feste e spettacoli. Ma, accanto a questo verseggiare quasi per obbligo, probabilmente poco sentito, il nostro gentiluomo coltivava un’inclinazione più genuina e dilettevole: quella d’ascoltar le fiabe che raccontavano le donne del popolo, cosa che avveniva di sera nei cortili dei quartieri popolari di Napoli, dove si radunavano grandi e piccini, pescatori e contadini, ladri e garzoni, guappi e lavandaie, e dove dalle bocche sdentate delle narratrici uscivano storie mirabolanti di orchi e di streghe, di fate e piccirilli, di allocchi e furbacchioni, di furfanti e cavalieri, di draghi e principesse. Mescolato al pubblico cencioso di quei cortili trasformati in teatri, Giambattista Basile condivideva con gli altri l’entusiasmo per gli intrecci fantastici e la narrazione arguta, e come tutti si emozionava e divertiva, ma, a differenza degli altri, annotava su un foglio gli snodi della narrazione, le battute dei personaggi, le magie delle ambientazioni. Poi, a casa, riscriveva quelle storie infondendovi il suo cuore dissonante di napoletano in bilico  tra l’assuefazione alla frequenza delle corti nobiliari in qualità di cortegiano di forbita eloquenza e l’interesse e la propensione per il dialetto grasso e virulento del popolo, sapido d’immagini succulente, di doppi sensi burleschi, di contundenti invettive. E la sua scelta di compilare le novelle in dialetto rispondeva proprio alla duplice esigenza d’associare la ricchezza aulica e pletorica del linguaggio barocco alla scoppiettante vivacità e fantasia della parlata napoletana,  così ricca di timbri contrastanti  e capace di trascorrere dalla soavità degli accenti della passione d’amore alla scurrilità più sfrenata degli epiteti  e delle invettive nella rappresentazione del turpe e dell’ignobile.
 

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