La rissa di Diego Velasquez
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Lo Cunto de li cunti, ovvero lo trattenimento
de’ peccerelle, nasce in quel di Napoli, all’inizio del
Seicento, per mano di Giambattista
Basile, “avventuriero onorato”, com’eran detti all’epoca i gentiluomini che
prestavano servizio presso le corti principesche o baronali in qualità di
agenti diplomatici, giudici, amministratori e, insieme, letterati, pronti a
fornir versi acconci a celebrar cerimonie feste e spettacoli. Ma, accanto a
questo verseggiare quasi per obbligo, probabilmente poco sentito, il nostro
gentiluomo coltivava un’inclinazione più genuina e dilettevole: quella
d’ascoltar le fiabe che raccontavano le donne del popolo, cosa che avveniva di
sera nei cortili dei quartieri popolari di Napoli, dove si radunavano grandi e
piccini, pescatori e contadini, ladri e garzoni, guappi e lavandaie, e dove
dalle bocche sdentate delle narratrici uscivano storie mirabolanti di orchi e
di streghe, di fate e piccirilli, di allocchi e furbacchioni, di furfanti e
cavalieri, di draghi e principesse. Mescolato al pubblico cencioso di quei
cortili trasformati in teatri, Giambattista Basile condivideva con gli altri
l’entusiasmo per gli intrecci fantastici e la narrazione arguta, e come tutti
si emozionava e divertiva, ma, a differenza degli altri, annotava su un foglio
gli snodi della narrazione, le battute dei personaggi, le magie delle
ambientazioni. Poi, a casa, riscriveva quelle storie infondendovi il suo cuore
dissonante di napoletano in bilico tra
l’assuefazione alla frequenza delle corti nobiliari in qualità di cortegiano di forbita eloquenza e l’interesse
e la propensione per il dialetto grasso e virulento del popolo, sapido d’immagini
succulente, di doppi sensi burleschi, di contundenti invettive. E la sua scelta
di compilare le novelle in dialetto rispondeva proprio alla duplice esigenza d’associare
la ricchezza aulica e pletorica del linguaggio barocco alla scoppiettante vivacità
e fantasia della parlata napoletana,
così ricca di timbri contrastanti e capace di trascorrere dalla soavità degli
accenti della passione d’amore alla scurrilità più sfrenata degli epiteti e delle invettive nella rappresentazione del
turpe e dell’ignobile.
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