Tommaso Landolfi occupa nella letteratura italiana
del Novecento una posizione particolare, quella d’un grande stilista capace di
creare superbi artifici narrativi capaci di inoltrarsi nelle zone di frontiera
tra sogno e veglia per restituire il carattere sfuggente e polivalente del
reale, cogliendone volentieri le risonanze sinistre, ma in una cifra ambigua
che oscilla tra l’ironia e lo scetticismo e che spesso fa pensare a un senso d’insignificanza,
a un non voler prendere troppo sul serio la materia stessa del narrare così
come non va presa troppo sul serio la vita, dove la sorte dell’uomo non è che
una condanna senza scampo e di fronte alla quale, per conseguenza, ogni atto,
compreso quello di volerla rappresentare, diventa un gesto futile e quasi
inutile. Una frase del diario dello scrittore, intitolato, vedi caso, Rien va, svela con chiarezza il suo
atteggiamento verso l’esistenza: “Di vero
non v’è se non che lo spirito giace eternamente in catene, poco importa da chi
forgiate”.
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