L’opera di Isaak Babel, comparsa nel quadro della letteratura sovietica
ma composta da una visuale non completamente assimilabile allo spirito
sovietico, rappresenta senza dubbio una delle voci più originali e suggestive
emerse nella narrativa russa nel periodo che si situa a cavallo degli anni
venti e trenta del 1900. Nato e cresciuto in un ghetto ebraico, quando gli
ebrei erano spesso vittime dei pogrom consumati dai goyim, i non ebrei, Babel sviluppò un senso di distacco e di
alienazione dal mondo e dai suoi simili del quale non riuscì mai a liberarsi;
un sentimento che gli derivava dalle umiliazioni subite a causa della razza di
appartenenza e dell’indigenza in cui fu costretto a vivere per anni, ma
soprattutto dalla sua vocazione per la letteratura, concepita subito come un
mezzo per evadere dal ristretto mondo ebraico e aprirsi alla Russia e oltre,
verso l’Europa e l’Occidente; tant’è vero che i suoi maestri, accanto a Cechov,
Puskin e Tolstoj, furono i francesi Flaubert, Rabelais e soprattutto
Maupassant, del quale tradusse anche alcune novelle, com’è rievocato nel suo
racconto Guy de Maupassant.
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