martedì 3 dicembre 2013

SHAKESPEARE E IL NICHILISMO DI AMLETO




Amleto nell'interpretazione di Lawrence Olivier
Amleto è la tragedia di uno spirito titanico che si dibatte nell’angusta prigione d’una natura  assediata dallo scetticismo e dall’abulia. Il principe di Danimarca dubita di tutto, soprattutto di se stesso e, poiché non è sicuro di nulla, si rifugia in una sorta di claustrofobia esistenziale che lo induce a una ruminazione carica di insofferenza verso ciò che lo vorrebbe pronto all’azione, cioè a compiere quella vendetta che gli ha domandato (e comandato) il fantasma di suo padre. L’esigenza della vendetta costituisce  un fortissimo richiamo alla sua coscienza,  ma non è sufficiente a spingerlo ad agire. All’adempimento di quello che pure avverte come un dovere per lui ineludibile, egli  preferisce la riflessione, il borbottio della coscienza,  quel costante interrogarsi su se stesso e su quanto  accade intorno a lui che sfocia nel famoso monologo  dell’ “essere o non essere”, dove si afferma , in sostanza, che non v’è certezza di nulla, anzi che il nulla sta al centro dell’essere, e che dietro ad ogni cosa c’è il vuoto.  Una constatazione che ci appare come una compiuta dichiarazione di nichilismo. Certo, al tempo di Shakespeare la definizione non esisteva e sarebbe passato del tempo per coniarla e, come dire, per tratteggiarne le caratteristiche. Ma dopo Shakespeare il nichilismo, questa mortale malattia dello spirito, si diffonde come una peste nella coscienza degli uomini dell’Occidente.


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