mercoledì 4 dicembre 2013

INCONTRO NEL SAHEL. Racconto di viaggio


Danzatori Pehul

La vasta pianura saheliana era quasi interamente coperta da una folla esorbitante e clamorosa, da un caleidoscopico assembramento d’uomini e d’animali in cui lo sguardo, stordito e ammaliato, si smarriva. Scendendo dall’affollatissimo autobus che mi aveva portato in quella regione a nord di Niamey, la capitale del Niger costituita in gran parte da quartieri bidonvilles alla cui atroce inopia e degradazione mi ero affrettato a sottrarmi, m’ero sentito sollevare immediatamente il cuore da quel vivace spettacolo di folla, di animazione, di folclore rappresentato dagli ampi raduni di genti diverse che risultano essere i mercati africani nelle zone di confine, là dove si dànno convegno, a determinate scadenze, gli allevatori nomadi o seminomadi transumanti nei territori desertici e i contadini stanziati nelle savane coltivabili. Si tratta di grandi mercati ma anche di occasioni di danze e festeggiamenti e di incontri e approcci sentimentali o sessuali tra uomini e donne di tribù o etnie diverse. V’erano i Peulh dalle membra sottili e allungate accompagnati da imponenti mandrie di zebù, i grandi bufali dalle corna a forma di lira che si vedono in tante decorazioni dell’antico Egitto; i Tuareg in groppa ai loro snelli dromedari o intenti a controllare piccoli armenti di capre segaligne; le vigorose donne della savana drappeggiate nelle pezze di cotonina stampata a foglie, a figure di zebre e leoni, o riproducenti i ritratti dei capi di stato delle nazioni africane. Neonati addormentati stavano appesi alla schiena delle madri sostenuti da un’altra pezza di stoffa assicurata al seno con un nodo. Alcune contadine a torso nudo mostravano con indifferenza i loro seni avvizziti, prosciugati da maternità ripetute. Invece le ragazze peulh più giovani e carine esibivano fieramente dei piccoli seni appuntiti, muovendo sinuosamente i corpi snelli e facendo tintinnare con civetteria i grandi cerchi sottili appesi alle orecchie e gli anelli d’ottone stretti alle caviglie. Alcune reggevano sul capo, a modo di turbante, un involto di stoffa contenente la dote da portare sempre appresso: utensili da cucina, attrezzi per l’allevamento, scampoli di tessuto, un gioiello prezioso. Su molti volti si notavano i rituali segni di scarificazione, praticati fin dall’infanzia per attestare l’appartenenza clanica o tribale. Le donne tuareg gareggiavano per avvenenza con le fanciulle peulh: entrambe, pur essendo di fede islamica, portavano il viso scoperto, mentre non pochi dei loro uomini, soprattutto fra i tuareg, avevano la parte inferiore del volto coperto da un velo nero. Alcuni, come me, erano convenuti sul luogo a bordo di camion o di pullman, ma la maggior parte dei presenti era arrivata cavalcando asini e cammelli, spesso addirittura a piedi, percorrendo molti chilometri d’un territorio ricco solo di sabbie e di cespugli spinosi.  
Donne Tuareg


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