Cartagine immaginata in un'antica pittura |
Il
trenino per Cartagine correva lungo un’esigua striscia di terra, strappando al
mare che la affiancava a destra e a sinistra rapidi balenii di sole. Ma, a
parte quegli sprazzi di luce frantumata, dovuti al moto sobbalzante del treno, il
mare intorno era piatto come una tavola, d’un affranto color verde, torbido e
oleoso, che gli conferiva l’aspetto inerte e lacustre dello stagno;
indubbiamente per questo i tunisini hanno battezzato quella distesa d’acqua
salata, mai turbata da un soffio, Lago di
Tunisi. Era domenica e nei vagoni oscillanti rumoreggiava una folla
festaiola visibilmente in gita fuori città, una ressa di gente accaldata e
invadente del tutto simile alle moltitudini domenicali delle nostre latitudini
se non per i fez, i turbanti e qualche barracano, quel camicione bianco simile a un’antica veste biblica indossato
da alcuni arabi. Temevo di ritrovarmi incastrato, una volta giunto a
Cartagine, in mezzo a una calca di corpi sudati e vocianti; invece, fui l’unico
a scendere alla minuscola stazione che ha preso il nome della città punica;
evidentemente per i tunisini - pensai - le mete domenicali erano altre, d’un
tipo più prosaico e mondano, come le spiagge più lontane del Capo Bonn o il
villaggio turistico di Sidi Bou Said; e, seguendo con lo sguardo la direzione
indicata da una freccia con la scritta
Carthage, ritenni anche di capire perché. Là dove immaginavo di trovare
vestigia di templi e di mura, di selciati di strade e di pavimenti di case,
insomma di tutto ciò che costituisce l’attrattiva d’un sito archeologico
celebre e insigne, di irresistibile richiamo turistico, non vidi altro che una
piccola collina sul mare, nuda e polita come una testa incalvita.
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