Amleto nell'interpretazione di Lawrence Olivier |
Amleto è la tragedia di uno spirito
titanico che si dibatte nell’angusta prigione d’una natura assediata dallo scetticismo e dall’abulia. Il
principe di Danimarca dubita di tutto, soprattutto di se stesso e, poiché non è
sicuro di nulla, si rifugia in una sorta di claustrofobia esistenziale che lo
induce a una ruminazione carica di insofferenza verso ciò che lo vorrebbe
pronto all’azione, cioè a compiere quella vendetta che gli ha domandato (e
comandato) il fantasma di suo padre. L’esigenza della vendetta costituisce un fortissimo richiamo alla sua coscienza, ma non è sufficiente a spingerlo ad agire.
All’adempimento di quello che pure avverte come un dovere per lui ineludibile,
egli preferisce la riflessione, il borbottio
della coscienza, quel costante
interrogarsi su se stesso e su quanto
accade intorno a lui che sfocia nel famoso monologo dell’ “essere o non essere”, dove si afferma
, in sostanza, che non v’è certezza di nulla, anzi che il nulla sta al centro
dell’essere, e che dietro ad ogni cosa c’è il vuoto. Una constatazione che ci appare come una
compiuta dichiarazione di nichilismo. Certo, al tempo di Shakespeare la
definizione non esisteva e sarebbe passato del tempo per coniarla e, come dire,
per tratteggiarne le caratteristiche. Ma dopo Shakespeare il nichilismo, questa
mortale malattia dello spirito, si diffonde come una peste nella coscienza
degli uomini dell’Occidente.
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